Immigrazione, origini, conseguenze e comunicazione

All’origine delle migrazioni: la globalizzazione
Le migrazioni internazionali costituiscono uno dei temi più caldi nelle agende politiche, economiche e sociali di molti paesi. Esse si sviluppano all’interno di quella che, a partire dagli anni ’90, viene definita globalizzazione: la tendenza ad una sempre maggiore interazione ed integrazione ha oggi portato ad un grado di interdipendenza particolarmente intenso. Con il termine globalizzazione si vuole intendere il contesto di facile circolazione dei capitali e delle informazioni reso possibile soprattutto dalla recente rivoluzione telematica. Già in precedenza, la progressiva riduzione dei costi dei trasporti aveva reso possibile una intensificazione dell’internazionalizzazione del commercio: la possibilità di vendere in tutto il mondo ed acquistare prodotti provenienti da ogni angolo del mondo. Alla creazione di un unico mercato finanziario mondiale ha poi contribuito il processo di finanziarizzazione dell’economia, come tentativo di combattere l’inflazione dopo la seconda crisi petrolifera degli anni ’70, portato avanti soprattutto da Regno Unito e Usa. È mancato, in un tale contesto, un efficace sistema di regolamentazione. Ciò ha portato ad una progressiva riduzione del numero degli operatori del settore e all’accentramento del potere finanziario mondiale in un’area del pianeta abbastanza ristretta: in particolar modo, Nord America e Europa occidentale che hanno così visto innalzare i propri livelli medi di reddito. La tabella che segue evidenzia le differenze in termini di reddito e di condizioni sociali e di vita tra Nord e Sud del mondo.

Globalizzazione_Immigrazione_Indice_sviluppo_umano

Internazionalizzazione del commercio, finanziarizzazione dell’economia e rivoluzione informatica, ma non solo: il fenomeno della globalizzazione coinvolge, infatti, anche la dimensione della comunicazione e delle relazioni sociali. A tal proposito, si pensi alla distribuzione mondiale di una parte della produzione cinematografica, della musica, o al ruolo svolto nel mondo dell’informazione da network come CNN, BBC e Al Jazeera: tutto questo determina informazioni comuni in tutto il mondo e produce familiarità con mode, usi, simboli e modelli di consumo altrimenti sconosciuti. È l’affermarsi di quello che viene definito villaggio globale e del conseguente mercato globale.
In tale ottica, la globalizzazione può essere definita come contrazione del mondo e compressione spazio-temporale. Il processo di accorciamento delle distanze e di accelerazione delle comunicazioni si accompagna ad una sempre maggiore interdipendenza economica e politico-sociale tra individui, collettività e paesi. Come sostenuto da Held e McGrew (2010), la globalizzazione può essere intesa come un nuovo paradigma di riferimento: nel mondo di oggi, sembra non avere più molto senso tenere in considerazione la tradizionale separazione tra affari nazionali e affari internazionali. Riallacciandoci alla precedente definizione di contrazione del mondo, dal punto di vista culturale e cognitivo, la globalizzazione può essere tradotta in un meccanismo di azione a distanza: ne scaturisce la consapevolezza che fatti, eventi o azioni che avvengono in un determinato luogo sono destinati ad avere effetti, più o meno rilevanti, in un qualsiasi altro luogo del mondo.

Questi aspetti sembrano convergere negli aspetti caratterizzanti della dimensione economica della globalizzazione: estensione dell’impatto territoriale dell’azione economica e sociale; rivoluzione cognitiva sulla dimensione spazio-temporale e sulla rilevanza internazionale dei fenomeni economici; evoluzione dell’organizzazione degli affari e degli scambi verso una società ed una economia globali.
Gli effetti della globalizzazione sono destinati a ripercuotersi non solo sul livello e sull’andamento della produzione e del reddito, ma anche sulla loro distribuzione e sulle opportunità offerte alle collettività e ai singoli individui: alla possibile crescita del PIL si accompagna – come dimostra la storia degli ultimi anni – una maggiore instabilità con crescenti diseguaglianze e squilibri difficili da governare.

La mobilità internazionale del lavoro
In un mondo sempre più globalizzato, la mobilità internazionale del lavoro cresce sempre più. Le cause di tale accresciuta mobilità sono da ricercare in diversi fattori. Hanno sicuramente dato un contributo: lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione permettono la possibilità di confrontare livelli, modelli di consumo e stili di vita a livello internazionale; e la massiccia riduzione dei costi della mobilità fisica delle persone.
Sebbene i flussi migratori siano spesso legati anche a diverse altre cause non necessariamente di natura economica (come ad esempio: situazioni di insicurezza o di guerra; mancato rispetto di diritti umani e diritti di cittadinanza; situazioni di degrado ambientale; crisi alimentari), è possibile affermare che un ruolo centrale nel determinare le decisioni di emigrare è svolto dall’esistenza di divari nel reddito, nelle retribuzioni e negli standard di vita conseguibili nei diversi paesi.
Come evidenziano i dati dell’International Migration Report, negli ultimi anni è sensibilmente cresciuta la mobilità internazionale della popolazione: considerevole soprattutto la crescita dell’emigrazione verso i paesi sviluppati. Tra il 1990 ed il 2010, il numero stimato di migranti internazionali è aumentato di 58 milioni di individui, attestandosi intorno ai 214 milioni di individui. Nel 2010, in Europa, i migranti internazionali costituivano il 9,5% della popolazione, contro il 6,9% del 1990; in Nord America addirittura il 14,2 %, a fronte del 9,8% del 1990.

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È in atto un significativo processo di redistribuzione della popolazione: i paesi più sviluppati stanno acquisendo popolazione; i paesi in via di sviluppo stanno cedendo popolazione. Considerando le direttrici geografiche dei flussi migratori, dagli anni Settanta in poi, pare evidente che – mentre Africa, Asia e America Latina fanno registrare saldi migratori costantemente negativi – Europa, Nord America e Oceania mantengono saldi costantemente positivi. Rientrano quasi tutti in queste macro aree, infatti, i dieci paesi con il più alto numero di immigrati, come visibile nel grafico qui a fianco, tratto dall’Immigration report 2015 delle Nazioni Unite.
Ma gli spostamenti di popolazione non avvengono esclusivamente tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati: il 60% delle migrazioni riguarda infatti spostamenti tra paesi sviluppati o spostamenti tra paesi in via di sviluppo. Inoltre, quasi la metà dei migranti internazionali si sposta all’interno della regione o area geografica di origine: il 40% circa si sposta verso un paese vicino; su dieci migranti, quattro migrano verso un paese con la stessa lingua del paese di origine; sei verso un paese in cui la religione principale è la stessa del paese di origine. Una tendenza, questa, confermatasi e rafforzatasi negli ultimi anni. Il numero di migranti internazionali, nel 2015, è infatti cresciuto, raggiungendo le 244 milioni di unità.

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E, mentre il Nord ha guadagnato il maggior numero di immigrati internazionali tra il 1990 e il 2015, dal 2010 al 2015 l’incremento medio annuo di migranti nel Sud ha superato quello nel Nord: 2,9 % contro 1,2 %, rispettivamente. nei paesi in via di sviluppo, la crescita della popolazione migrante è risultata principalmente
da un aumento del numero di migranti dal Sud. Tra il 1990 e il 2015, la popolazione migrante proveniente dal Sud e che vive nel Sud è cresciuto da 57 a 90 milioni, un aumento del 57 % (figura I.1).

In tutto il mondo, i migranti internazionali hanno rappresentato per una quota relativamente piccola della popolazione totale, che comprende circa il 3,3 % del mondo nella popolazione nel 2015, rispetto al 2,9 % nel 1990. Nel Nord, nel 2015, i migranti internazionali costituivano l’11,2 % della popolazione rispetto all’1,7 % nelle regioni in via di sviluppo. Tra il 1990 e il 2015, i migranti internazionali in rapporto alla popolazione totale sono cresciuti nel Nord ma sono rimasti quasi invariati nel Sud.

Caratteristiche delle migrazioni internazionali
Tra le caratteristiche dei flussi migratori vi è la relazione esistente tra questi e la dimensione demografica dei paesi: a parità di domanda di mobilità dei lavoratori, nei paesi più grandi essa può essere più facilmente assorbita dalle migrazioni interne piuttosto che dalle migrazioni internazionali. Stando ai dati del 2010, il numero di migranti interni, nel mondo, era stimato intorno ai 740 milioni, a fronte dei 214 milioni di migranti internazionali.
Un’altra caratteristica dei flussi migratori è che, diversamente da quanto si possa generalmente percepire, essi non costituiscono un flusso permanente: i migranti internazionali tendono sempre più spesso a trasferirsi solo temporaneamente nei paesi di destinazione, per poi tornare nei paesi di origine; e tale spostamento può essere ripetuto anche più volte.
Di fondamentale importanza poi, nella determinazione della mobilità internazionale del lavoro, sono le differenze nei livelli di vita tra paese di origine e paese di destinazione: tre quarti degli emigrati si spostano infatti verso un paese con Indice di Sviluppo Umano superiore a quello del paese di origine. E più basso è l’indice di sviluppo umano del paese di provenienza, più i migranti sembrano trarre vantaggio dall’emigrazione sia dal punto di vista del reddito che dal punto di vista dell’inclusione nei processi educativi, riducendo, inoltre, la mortalità infantile.
Conseguenze ed effetti della mobilità internazionale del lavoro
Stando agli studi empirici, con particolare riferimento al modello della proporzione dei fattori, l’emigrazione di persone (lavoratori) da un paese all’altro, aumentando la forza lavoro, accresce la produzione di quei beni che più intensivamente utilizzano come fattore produttivo il lavoro. La mobilità internazionale può produrre effetti positivi di convergenza dei salari reali a livello internazionale: infatti, nei paesi di destinazione, i salari reali diminuiscono, per effetto di diminuzione della produttività marginale del lavoro dovuto all’afflusso di lavoratori; nei paesi di origine, aumentano. Le migrazioni portano ad un aumento della produzione mondiale perché la produzione nei paesi di origine viene più che compensata dall’aumento di produzione nei paesi di destinazione.
Tuttavia, nella realtà, la liberalizzazione degli scambi determina un’espansione del commercio di prodotti simili e tra paesi simili, ma non favorisce affatto la convergenza del prezzo dei fattori e quindi dei redditi dei lavoratori. Potrebbe, anzi, scaturirne una tendenza opposta. Da ciò emerge che, più che altro, migrazioni e commercio internazionale possono essere fenomeni complementari e non sostitutivi, così come le politiche adottate per i due fenomeni.
Il migrante svolge un ruolo importante all’interno dell’economia che lo ospita. Aiuta, infatti, a mantenere costante il flusso in ingresso del mercato del lavoro, dal momento che le famiglie degli immigrati hanno un tasso di natalità superiore a quello dei nativi. Il migrante risponde a una carenza nel mercato del lavoro e quindi ciò potrebbe indurre a dare la precedenza a politiche a favore di un inserimento stabile nel mercato del lavoro, prendendo in considerazione l’emigrazione come una leva di sviluppo economico del paese di provenienza e di crescita per i paesi di destinazione.

Secondo i dati, la migrazione per ricongiungimento familiare e la libera circolazione all’interno delle frontiere dell’Unione europea hanno rappresentato ognuna circa il 30% della totalità dei flussi migratori permanenti verso i paesi dell’OCSE. Nel 2014 è risultata in deciso aumento la migrazione da Romania, Bulgaria, Italia e Francia (OECD Multilingual Summaries International Migration Outlook 2016, http://www.oecd-ilibrary.org). Anche la migrazione temporanea ha fatto registrare un aumento. Nel 2014 la mobilità intraziendale e il distacco di lavoratori all’interno dell’Unione Europea e dell’Area Europea di Libero Scambio sono aumentati rispettivamente del 17% e del 38%. Nel 2015, nell’area dell’OCSE è stato registrato il valore record di 1,65 milioni di nuovi richiedenti asilo. In Europa, nel 2015 è stata adottata e attuata “L’Agenda Europea sulla migrazione”, insieme ad altre misure volte ad affrontare le cause emergenti e le conseguenze più gravi della recente ondata di flussi migratori, per arrivare a riformare il sistema europeo di gestione di questi. La situazione economica dell’UE ha provocato un aumento della disoccupazione e quindi una riduzione delle opportunità di lavoro per i migranti scarsamente qualificati. Ciò comporterà necessariamente una diminuzione delle opportunità di migrazione regolare, nonché un calo dei consumi e una contrazione della spesa all’interno del paese di accoglienza. Inoltre, occorre anche considerare le conseguenze sociali e politiche della crisi. Nella maggior parte dei paesi di accoglienza è stato osservato infatti un aumento della xenofobia e del razzismo. L’analisi effettuata dalla Commissione Europea ha messo chiaramente in luce le perplessità in merito alla futura integrazione lavorativa, in particolar modo delle generazioni più giovani. Secondo lo studio, nei prossimi dieci anni saranno necessari più di 15 milioni di nuovi posti di lavoro, vale a dire il 30-60% di posti di lavoro in più rispetto a quelli che sono stati creati durante il periodo di espansione economica che va dal 2002 al 2007 (Labour markets performance and migration flows in Arab Mediterranean countries: determinants and effects, Occasional paper n. 60, 2010).

Inoltre, paradossalmente, in questi paesi la disoccupazione è sempre più legata al livello d’istruzione. Emerge quindi una nuova sfida per l’UE: quella di creare posti di lavoro anche in linea con il grado di qualificazione degli individui.
La gestione dei flussi migratori – dal punto di vista dell’Europa – è l’ambito che maggiormente riflette la mancanza di un disegno strategico condiviso dall’insieme dei paesi membri nei confronti delle aree di prossimità (Cfr. Eugenia Ferragina, Rapporto sulle economie del mediterraneo, il Mulino, 2016, Bologna). Si ha un’incomprensione generale della natura del fenomeno e la mancanza di una visione complessiva. Per questo, in tempi recenti, sono sorti dei fenomeni come la comparsa di connivenze criminali e l’emergere di problematicità nei processi di integrazione all’interno delle comunità ospitanti (Cfr. Alessandro Romagnoli, Il partenariato euro-mediterraneo alla prova dei flussi migratori, Rapporto sull’economia del mediterraneo, il Mulino, 2016, Bologna).

Il totale dei migranti presenti nei paesi dell’Unione Europea era, nel 2015, di 50 milioni, con valori uguali o sopra la media per i paesi a maggiore livello di benessere e valori più scarsi per quelli a minor benessere. I migranti irregolari, secondo i dati, nel 2008 oscillavano tra 1,9 e 3,8 milioni di persone. Il flusso degli ingressi illegali da tutte le frontiere dell’unione nell’ultimo quindicennio, arriva intorno ai 100.000 attraversamenti per anno, che avevano fatto registrare tra il 1998 e il 2014 un totale di 840.000 persone.
Per quanto concerne i flussi migratori, inizialmente i lavoratori in cerca di occupazione lasciavano i paesi dell’Europa meridionale per raggiungere i paesi più industrializzati. Accanto a questi movimenti, altri avevano origine da una serie di instabilità politiche e dalle guerre.
I due flussi possono essere così sintetizzabili: uno Sud-Nord dal Maghreb verso i paesi mediterranei di lingua neolatina e verso quelli del centro Europa, e uno Sud-Sud che vede marocchini, tunisini ed egiziani spostarsi verso la Libia, e lavoratori appartenenti ai paesi mediorientali del mediterraneo andare a cercare lavoro nei paesi arabi del Golfo Persico.

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Quindi questi flussi non sono che la punta dell’iceberg, ossia di un sistema migratorio intercontinentale in espansione, che ha nel mediterraneo il suo centro.
L’incredibile aumento dei flussi ha provocato nel corso degli anni sempre più incertezze e ritardi nell’adozione di politiche che fossero adeguate alla gestione di tutti i problemi derivanti dall’acquisizione, per gli Stati, di così larghe fasce di nuova popolazione. Oggi, per questo, si parla di una vera e propria emergenza immigrazione. Le istituzioni dei vari governi, in momenti come questo, si sono adoperate sempre più sul versante della sicurezza e del controllo delle frontiere.
Una delle questioni di ordine pubblico, ad esempio, è l’integrazione delle popolazioni musulmane residenti in Europa. In questi casi, si cerca di dare priorità a quegli interventi volti a ridurre al minimo l’impatto che i flussi migratori possono avere sulle società di accoglienza. Nel mezzogiorno d’Europa sono sempre più frequenti e segnalabili episodi di clandestinità e irregolarità. Episodi che si accompagnano all’attuale scenario internazionale, esacerbato dagli atti terroristici di natura islamica. La narrazione sulle migrazioni punta il proprio focus sulle rotte via mare e da essa emergono storie ed immagini di sbarchi drammatici. Tutto ciò non fa altro che alimentare la diffusa sensazione di continua emergenza, come confermato dal sondaggio IPSOS “Visioni globali sull’immigrazione e la crisi dei rifugiati” per L’Espresso, che riprendiamo qui a fianco. Sull’aspetto della comunicazione delle migrazioni ci soffermeremo a breve.

Migrazioni e commercio internazionale
Nell’attuale contesto di globalizzazione e liberalizzazione degli scambi internazionali, le politiche di forte controllo dei flussi migratori ostacolano la crescita della liberalizzazione del mercato internazionale del lavoro. Nel quadro del modello della proporzione dei fattori, commercio internazionale e migrazioni tendono ad essere alternativi l’uno all’altro.
In tale ottica è possibile inquadrare le strategie di alcuni paesi industrializzati, come Usa e Unione Europea, volte a promuovere accordi di libero scambio con i paesi dai quali derivano i più importanti flussi migratori. Tra queste rientra l’Area di libero scambio nordamericana (North America Free Trade Agreement), che l’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump rimesso in discussione. La strategia punterebbe a sostituire il commercio internazionale alle migrazioni del lavoro, facendo leva sulle differenti dotazioni fattoriali di paesi quali il Messico – ricco di mano d’opera non specializzata e terra – e gli Stati Uniti – abbondanti di mano d’opera specializzata e capitali.
La realtà dei fatti suggerisce tuttavia che, anziché alternative le une alle altre, le politiche di liberalizzazione degli scambi e le politiche migratorie possano essere considerate – come già detto in precedenza – strategie tra loro complementari. Non trova infatti conferma la teoria secondo la quale il libero commercio a lungo andare possa portare al pareggiamento del prezzo dei fattori produttivi e quindi alla riduzione del divario del reddito tra i paesi, principale incentivo alla scelta di molti di migrare. Tenendo conto anche delle situazioni di concorrenza monopolistica e rendimenti crescenti o costanti, infatti, la liberalizzazione degli scambi genera l’espansione del commercio di prodotti simili tra paesi simili, ma non la convergenza del prezzo dei fattori. Potrebbero invece crearsi le condizioni per la mobilità del lavoro dal momento che lo sviluppo degli scambi tra due economie inizialmente identiche potrebbe determinare una divergenza dei salari – qualora il settore di esportazione sia caratterizzato da rendimenti crescenti. Pertanto, non risulta contraddittorio il fatto che il governo di un paese possa adottare, al contempo, strategie per lo sviluppo di un’area di libero scambio e forti controlli dei flussi migratori nei confronti di un medesimo paese.

La comunicazione dell’immigrazione
Un’interessante spunto di riflessione ci viene offerto anche dall’analisi di quella che è la comunicazione dell’immigrazione. L’Italia è diventata, come già detto in precedenza, meta dei flussi migratori. Ed il racconto di tale fenomeno ci viene offerto dai media – tradizionali e non – attraverso stili narrativi differenti. Ma ciò che emerge in maniera sempre più evidente è che spesso il minimo comun denominatore di gran parte della narrazione che si fa del fenomeno dell’immigrazione sia un più o meno velato – dipende dai casi – razzismo. È sufficiente pensare, ad esempio, all’uso che si fa dei termini “extracomunitario”, “clandestino” o “fondamentalista”: tutti utilizzati, quasi esclusivamente, in accezione negativa. È un uso che alimenta, in maniera consapevole o meno, sacche di razzismo ed intolleranza poiché condiziona la percezione che i lettori possono avere del fenomeno immigrazione e delle notizie che riguardano gli immigrati. Ne consegue una narrazione parziale che rischia inevitabilmente di confondersi e fondersi con la cronaca. Da qui, la sempre più frequente presenza di termini quali “emergenza”, “invasione” e “problema da risolvere” all’interno del pubblico dibattito sull’immigrazione.
Da paese origine dei flussi migratori, l’Italia si è trasformata in pochissimi anni in meta dei flussi migratori. Una trasformazione rapida che non ha, di fatto, giovato alla comune percezione del fenomeno. Quello che possiamo definire, per molti aspetti, un vero e proprio “effetto sorpresa”, ha rafforzato nell’immaginario collettivo l’idea di immigrazione come problematicità. Tale percezione negativa ha trovato, negli anni, il valido appoggio dei media: i toni allarmistici hanno sin dagli inizi scandito il racconto dell’immigrazione. E i toni dei media hanno finito per influenzare il linguaggio della politica arrivando a condizionarne addirittura l’agenda: “l’invasione” è divenuta così un “problema di sicurezza nazionale”.

Ma le cause del problema non sembrano imputabili completamente ed esclusivamente ai media. La narrazione prodotta e riprodotta da questi ultimi è infatti il sintomo di qualcosa che è già presente nella società e nella cultura. Una percezione diffusa e latente che può essere riassunta con l’espressione “paura del diverso”. Media e società possono essere infatti considerati vasi comunicanti: l’attenzione dei primi ad alcuni temi è espressione, in una certa misura, all’attenzione che la società ripone su quegli stessi temi. La superficialità di un pubblico poco propenso ad approfondire e a fruire con spirito critico le notizie si riflette nella superficialità dei media che finiscono per trattare anche temi diversi come immigrazione, clandestinità e criminalità come fossero un unico grande problema. Ciò produce tutt’altro che una narrazione autentica del fenomeno. A maggiori ragione se le modalità ed i termini di questa contribuiscono – attraverso la loro spasmodica reiterazione – a far divenire abitudinari alcuni temi quali il bisogno di fuggire, gli sbarchi e le opinioni sugli immigrati. L’abitudine rischia, di fatto, di renderli insignificanti.

La vicendevole capacità di media e società non devono però dissuadere dal ruolo che i primi svolgono all’interno della seconda. Essi svolgono non solo la funzione denotativa, volta ad informare, ma anche la funzione connotativa, con implicazioni emotive ed affettive, e la funzione simbolica: contribuiscono a determinare e diffondere una certa visione del mondo.
Eppure, la visione “distorta” del fenomeno immigrazione si inserisce in un più ampio contesto di inadeguata rappresentazione sociale. Come suggerisce Marino D’Amore nel suo “Media, comunicazione immigrazione”, si tratta di un vero e proprio difetto comunicativo caratterizzato da diverse dimensioni: la tendenza alla drammatizzazione dell’informazione; la tendenza ad adoperare un linguaggio che privilegia la dimensione emotiva a scapito di quella razionale; la superficialità nella verifica delle fonti, in favore di una notizia ad effetto; la carenza di funzione e fruizione critica dei prodotti di comunicazione. I media finiscono così per rinfocolare la già citata “paura del diverso”. Diviene quindi auspicabile sostituire l’attuale modello narrativo con un modello meno semplicistico in grado di rispettare le più semplici regole di uguaglianza e solidarietà che dovrebbero costituire le basi dell’epoca della globalizzazione.

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Felice Tommasino

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